L’animale morente
Io professore, tu (ex) studentessa. Let’s have sex.
In epoca di #MeToo sarebbe fin troppo facile classificare il sessantaduenne professore universitario protagonista de L’animale morente (dell’ahimè scomparso Philip Roth) come l’ennesimo esempio di pervertito che approfitta della propria posizione di potere per soggiogare innocenti studentesse del suo corso di Critica letteraria. E invece no.
Basta arrivare in fondo alla prima pagina (o forse anche meno) per intuire che la situazione è un tantino più complicata (e da un’opera di Roth non potevamo che aspettarcelo).
Niente è prevedibile in questa storia, ma soprattutto: chi è la vittima e chi il vero carnefice?
L’irresistibile giovane cubana Consuela Castillo o il suddetto prof. Kepesh?
Con la sua magistrale narrazione e in un crescendo d’intensità, Roth ci trascina nella vita privata dei protagonisti, mettendo a nudo ogni sfaccettatura di una relazione destinata a lasciare un segno profondo, molto più profondo di quanto entrambi i protagonisti avrebbero potuto immaginare.
A lato, servita come contorno, si snoda la vicenda di Kepesh padre, con tutte le difficoltà che un rapporto tra genitore separato e un figlio segnato dal suo abbandono può comportare.
L’onestà intellettuale di uno scrittore come Roth, capace in queste pagine di dare voce a tutti i (peggiori) pensieri che possono attraversare la mente di un uomo, è tanto straordinaria quanto generosa: l’ennesimo dono dello scrittore americano che nella sua carriera ha vinto con i suoi romanzi quasi tutto quello che poteva essere vinto.
Come ho scritto a un caro amico (a cui ho deciso di regalare questo libro): ti bastano le prime dieci righe per capire se L’animale morente lo leggerai d’un fiato o se proprio non fa per te.
A voi la scelta.
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