Castelli di rabbia

Ci sono momenti in cui la vita sembra una tale montagna di merda che l’unica cosa che puoi fare è affondare lo sconforto in un vasetto di Nutella o in un barattolo di gelato al caramello salato di Haagen-Dazs.
Ma se pure la dispensa non ti è di aiuto, non ti resta che rannicchiarti da qualche parte, chiudere gli occhi e rifugiarti in un mondo tutto tuo, NON PER FORZA MIGLIORE, MA DIVERSO. Un mondo che possa darti l’illusione che un’altra vita è possibile, così «lo schifo a poco a poco se ne va. Poi torna, è ovvio, ma intanto, per un po’, l’hai fregato».

Quinnipack è proprio questo, un luogo a metà tra il reale e l’immaginario, un luogo che non troverete su nessuna cartina geografica eppure esiste e pullula di splendidi personaggi, inguaribili sognatori, geni incompresi, le cui storie si intrecciano come le trame di una coperta con cui scaldarsi in certe giornate nere.

A Quinnipack vivono il signor e la signora Rail, che sono così strani da pensare che li tenga insieme un segreto, Pekisch, che suona l’umanofono, una specie di organo fatto di persone ognuna delle quali produce una sola nota, la propria, Pehnt, un ragazzino che aspetta di diventare grande e nell’attesa prende appunti. Ma a Quinnipack ci sono anche l’architetto, realmente esistito, Hector Horeau, promotore dell’enorme palazzo di vetro costruito nel 1850 nell’Hyde Park di Londra e la vedova Abegg, che poi vedova non è.

E proprio a Quinnipack metaforicamente scappa una donna che ha negli occhi il sogno americano per alleviare lo schifoso viaggio in transatlantico che dall’Europa la porterà dall’altra parte dell’oceano.

“Castelli di rabbia” di Alessandro Baricco
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